NELLE SALE DEL SECONDO PIANO DEL CASTELLO MANSERVISI LA MOSTRA DI PITTURA “RITORNO A CASTELLUCCIO” DI GIOVANNI PIVETTA – SONO ESPOSTI PIU’ DI 130 LAVORI. L’INAUGURAZIONE E’ AVVENUTA IL 15 LUGLIO CON UNA RELAZIONE DI FRANCESCO ZAGNONI RELAZIONE CHE SARA’ PUBBLICATA NEL PROSSIMO NUMERO DELLA RIVISTA NUETER
VI PROPONIAMO L’ARTICOLO SULLE VETRATE DI GIOVANNI PIVETTA DISEGNATE PER LA CHIESA DI CASTELLUCCIO NEL 1954 E APPARSO SUL NEMERO DI DICEMBRE 2011 DELLA RIVISTA NUETER
Un pittore a Castelluccio:
le vetrate della chiesa parrocchiale di Giovanni Pivetta
di Marina e Daniela Pivetta
Quando Renzo Zagnoni ci ha chiesto di pensare all’allestimento dei lavori di papà in occasione della fine della ristrutturazione del tetto della chiesa di Castelluccio, dove sono collocate le quattro vetrate da lui disegnate, abbiamo pensato che una mostra al Castello Manservisi avrebbe avuto un senso. Nostro padre non ha lavorato solo a Venezia e a Feltre-Belluno dove ha vissuto, ma ha dipinto, e non poche cose, anche a Castelluccio. Era qui che si trascorreva e, noi figlie, continuiamo a trascorrere da più di sessant’anni, l’estate. La casa della nonna Ida, la nonna materna, una delle tante Pranzini di questo borgo, da giugno a metà settembre si riempiva all’inverosimile con cugini, zii, parenti, amiche e amici che potevano godere di quell’accoglienza, quasi sacra, che poi è diventata parte della nostra cultura. Un affollamento che spesso il papà rifuggiva allontanandosi con cavalletto e colori o cercando la compagnia di Giuseppe Pranzini con il quale scambiava volentieri una chiacchiera sul rapporto tra artigianato e arte. Entrambi, infatti, stavano sperimentando le due diverse modalità creative. In quel periodo non fece solo paesaggi ma anche molti ritratti ai parenti di Casatelluccio della mamma.
Sì, una mostra di Giovanni Pivetta a Castelluccio diventa quasi un obbligo soprattutto dopo aver organizzato le prime due là dove il papà è nato e ha vissuto negli ultimi anni della sua vita che si è conclusa nel 2001. La prima mostra è stata allestita a Feltre nel 2003, al palazzo Cingolani e l’altra a Belluno nel 2007 alla Crepadona. Perché no, dunque, una al Castello Manservisi nel 2012?
Ma tornando alla ristrutturazione del tetto della chiesa dove sono collocate le quattro vetrate e alla richiesta di Renzo di ricostruire la storia di questi lavori, bisogna dire che non abbiamo nessuna documentazione scritta, quello che ci rimane è il ricordo di quel tempo lontano, quando noi eravamo bambine di sei, sette anni.
Siamo a Venezia nella casa di calle Caotorta vicino a campo Sant’Angelo. Il papà e seduto al tavolo di marmo della grande cucina a piano terra, davanti a sé ha dei fogli con degli schizzi, in altri il disegno è più definito, ha in mano dei gessi colorati, su alcuni fogli i colori hanno una campitura araldica, il papà non li sfuma: il blu è blu, il rosso, rosso e il giallo deve essere giallo, quel giallo. Chiediamo il perché. Ci spiega che quando farà i cartoni per consegnarli in vetreria, i mastri vetrai dovranno sapere quale sarà il colore dei vetri da assemblare e il vetro non ha sfumature ha un colore unico. Ecco perché quei disegni sono così diversi dagli altri sul tavolo, dove aveva tratteggiato invece visibili sfumature. Il papà dava sempre una risposta ad ogni nostro perché. Ma dove avrebbe fatto i cartoni che senz’altro sarebbero stati più grandi del già grande tavolo della cucina? Nel suo studio fu la risposta. Una grande stanza della casa vicino al giardino, non era andato lì ha disegnare perché solo in cucina faceva caldo, mentre nello studio non c’era la stufa e a Venezia l’inverno è freddo e umido e, in particolar modo, quell’inverno. Eravamo intorno alla metà degli anni Cinquanta. In casa si diceva che la laguna si era ghiacciata per alcuni tratti e di ghiaccio era anche il latte nella bottiglia di vetro che il nonno comprava da Nane in calle della Mandorla. In quel periodo in casa non si parlava solo delle vetrate della chiesa di Casteluccio che ad alcuni erano piaciute mentre ad altri no o della laguna ghiacciata, ma anche della rivolta di Ungheria. Un argomento che trasformava pranzi e cene in discussioni accesissime. Il nonno era socialista. La nonna badava a noi. Il papà e la mamma erano comunisti.
Mentre disegnava i bozzetti per le vetrate ricordo che il papà ci spiegò come i maestri vetrai riunivano tra loro i vari pezzi di vetro colorati. È un modo -ci disse- di lavorare che era nato in Francia intorno al 1100. Poi quel racconto che aveva il ritmo e l’alone della favola lo riscontrammo nei volumi di storia dell’arte che erano in casa a nostra disposizione. Avevamo l’abitudine di consultarli fin da piccole perché erano libri ricchi di immagini e colori ma anche di storie avvincenti come le vite degli artisti. Così, più avanti negli anni, scoprimmo che i racconti del papà non erano soltanto favole ma storia che poteva essere letta sui libri. Così nella nostra memoria non si cancellò più il ricordo della vetrate e di come venivano fatte… la tecnica per disegnare il vetro nata in Francia si diffuse soprattutto nell’Europa del nord: Belgio, Germania, Olanda… nel medioevo, non si potevano ottenere lastre di grandi dimensioni, ogni finestra doveva essere composta da più pezzi messi assieme. Per questo motivo utilizzavano dei vetri colorati uniti tra loro con dei listelli di piombo la cui sezione era a forma di “H”. Questi vetri venivano poi tagliati seguendo i disegni fatti in precedenza, dopo averli sagomati si incastravano tra le due ali del listello di piombo. Ogni listello veniva saldato a quello contiguo in modo da ricomporre il disegno previsto dal cartone. Il tutto era tenuto assieme da una cornice di ferro che veniva murata alla finestra. Un po’ di tempo dopo, mentre in casa discutevano ancora delle vetrate, chiedemmo alla mamma perché usavano il piombo e non il ferro per unire i vetri, ovvio, ci rispose, perché il piombo è morbido, malleabile e facilmente può seguire la forma del disegno. La cosa ci convinse ma quello che non ci convinceva era come si riusciva ad avere dei pezzi di vetro con disegnati occhi, capelli, mani o muscoli, come se il vetro fosse un foglio di carta dove ogni sfumatura era possibile. A questo punto la mamma che insegnava disegno ci fece una specie di lezione sulle vetrate gotiche. È proprio in Francia, dove per la prima volta si pensò alla possibilità di vetrate colorate e dipinte, che venne sperimentata la grisaille. Era una sostanza ottenuta dal miscuglio di polveri di vetro e di ossidi ferrosi macinati e impastati con acqua e colle animali. Questa poltiglia veniva spalmata sui pezzi di vetro da decorare e, una volta secca, con uno stilo di legno si graffiava riportando, dove serviva, la trasparenza del vetro sottostante. L’impasto si lasciava dove si voleva che rimanesse quel segno che delineava viso, mani, piedi o il paesaggio… insomma il disegno con le sue sfumature. Per fissare il dipinto era necessario ricuocere i singoli vetri in modo che la grisaille finisse di fondersi e amalgamarsi nella pasta stessa del vetro. Così facendo i contorni tracciati diventavano opachi, mentre le parti graffiate conservavano la trasparenza del vetro colorato.
Le vetrate della chiesa di Castelluccio infatti sono per così dire una citazione di quelle gotiche non tanto nella grafica quanto nella tecnica di lavorazione. Il ricordo però si stempera quando da Renzo Zagnoni ci viene chiesto se si trattava di una vetreria di Murano o di un’altra località e da chi fosse stato fatto il pagamento delle vetrate. Di sicuro il lavoro di bozzetti e cartoni fu un regalo del papà.
Dopo tanti anni e ripensando a quella particolare esperienza creativa di nostro padre gli si chiese se voleva cimentarsi con un’altra vetrata per la casa di Roma dove erano andati a vivere Marina e Stefano.
Le tecniche erano cambiate soprattutto nella dimensione e nella potenza dei forni per il vetro. È così che il papà nel giro di pochi giorni fece un cartone dove sperimentava un immaginifico paesaggio, un intreccio creativo tra figurativo ed astratto. Confidava che i giovani vetrai Silvia e Mirco del Prenestino a Roma fossero in grado di riproporre sul vetro segni e colori da lui proposti. Il risultato fu egregio. Su tre lastre bianche sparsero della polvere e dei pezzetti di vetro di vari colori in modo da ricopiare il cartone alla perfezione. Venne poi tutto infornato per fondere i vari vetri. Il risultato fu una lastra dalle più variegate sfumature, colori e segni. Il listello di piombo e la grisaille in questo caso non servivano più.